Ci sono mattine, in California, in cui la nebbia sale
inesorabile prima dell’alba a velare l’acqua dell’oceano, a sbiadire i contorni
delle persone, a sfumare le cime dei monti.
Racconti di epoche e di luoghi
lontani si affacciano prepotentemente alla memoria, in cerca di legittimazione,
in cerca di consenso: tritoni e sirene, grotte marine e antri misteriosi,
abitazioni nascoste lassù oltre le nuvole danzano nella mente e davanti agli
occhi di quanti si arrendano, docili, ai loro richiami segreti, alle loro suggestioni mitologiche.
L’istinto più forte, in
questi frangenti, è uscire da casa il più in fretta possibile, anche in pantofole,
anche in pigiama, per camminare incontro alla bruma stopposa che incombe sull’orizzonte, nella vana speranza di poterla raggiungere e sparirle dentro, in
quel suo ventre sfilacciato e accogliente.
Ciò che difficilmente capita
a Santa Monica, tuttavia, diventa facile
realtà a San Francisco dove, molto tardi, è possibile infilarsi nel bianco lattiginoso della nebbia
fino a vedere muri, alberi, lampioni e strade trasfigurare in qualcosa di
diverso, di sconosciuto e, per ciò stesso, di affascinante.
A notte fonda, quando tutto
dorme e il silenzio si conferma l’unica presenza tangibile intorno, i confini
delle cose perdono consistenza, avvolti dalla coltre impalpabile, per assumere
forme nuove, forme bizzarre, forme impreviste.
I fanali delle poche auto in giro a quest’ora, con le loro colorazioni giallastre,
macchiano di sfumature spettrali l’aria circostante, tingendola di accenti
sovrannaturali: a ogni angolo buio e denso si teme dunque, o forse ci si
augura, le gambe pronte a uno scatto atletico, l’apparizione di un fuoco fatuo,
di un’anima perduta in cerca di consolazione o di sollievo.
E così, arrischiare una
passeggiata nei dintorni del Golden Gate
Bridge, verso le tre del mattino, significa quasi certamente superare una
soglia, quella tra la notte e il giorno, tra il sogno e la veglia: a essere molto
fortunati, uno sguardo coraggioso oltre la struttura rossa può talvolta
rivelare i tratti inconfondibili di un vascello fantasma, con il suo carico di
suoni agghiaccianti e di voci straziate, pronto al consueto, seppure inutile,
arrembaggio alla sfera dei vivi.
Frattanto, gli edifici del Presidio, oramai riconvertito in area
ricreativa, sembrano riecheggiare improvvisamente dei passi dei tanti militari
spagnoli, messicani o nordamericani avvicendatisi all’interno delle sue casette
ordinate e pulite, affacciate sull’estrema punta settentrionale della penisola
di San Francisco a chiacchierare col
vento e con i gabbiani.
Altrove, ovunque, sui colli,
nell’acqua, sotto i tetti vittoriani, i sussurri dei giorni passati, i ricordi
dei terremoti accaduti, a tessere, anno dopo anno, secolo dopo secolo, la trama
inconfondibile di questa nebbia californiana.
E.M.
E.M.
