Attraversando il quartiere di Westwood in direzione dell’università, alle dieci passate, si incrocia il
fermento consueto di qualsiasi giorno, lavorativo o meno. Le strade, anzi, sono
piuttosto trafficate, addirittura congestionate, in alcuni punti.
I viali del campus, immerso
nella quieta agiatezza di piccoli condomini e villini dall’architettura elegante,
invece, sono deserti. Nei suoi parcheggi, ingentiliti da alberi e aiuole in
fiore, si possono contare facilmente le macchine abbandonate con noncuranza,
mentre i pochi visi in giro appartengono a persone di una certa età, che il
sonno, evidentemente, o forse i cani che le precedono festanti, non sono
riusciti a tenere a letto.
Nemmeno gli scoiattoli,
abituali frequentatori del complesso, hanno ancora avuto il coraggio di uscire
dai propri, caldi, nascondigli in cerca di cibo. E così, i prati che circondano
i vari edifici hanno un che di puro, di virginale, quasi aspettassero d’essere
svegliati da un sonno durato troppo a lungo.
Le caffetterie, ritrovo
abituale dei numerosi iscritti ai diversi corsi, osservano religiosamente il
riposo settimanale, conferendo al luogo una nota stonata, inquietante.
Lo spazio, tutt’intorno, pare
senza fine.
A camminare tra le sue
costruzioni, in mattoni rossi, dall’aspetto rinascimentale, si ha l’impressione
di camminare tra monaci e monache, tra abati e abbadesse. Tra i rigidi cipressi, mausolei, cattedrali
o semplici chiese si spartiscono equamente colonne e porticati, logge e lesene, altane e abbaini, in un vortice continuo di richiami e citazioni, di memorie e suggestioni.
Nel silenzio circostante,
interrotto, molto raramente, dal canto stridulo di qualche uccello, ci si
convince presto d’essere in un altro posto, in un altro tempo.
Voci appartenenti a quanti
abbiano calpestato questo lastricato, quest’erba, negli anni, nei secoli passati,
si affollano ora intorno alle orecchie di chi sia capace di ascoltare, di chi
non si lasci intimorire dalla bizzarria dell’evento.
Oltre le arcate di pietra
bianca sembra di scorgere un’ombra; oltre le panche di cemento, gelide e severe
come quelle di un cimitero, sembra di registrare un movimento fulmineo; in alto, sulle torri, sembra di intravedere un’immagine sbiadita.
Ma quando un orologio, in
lontananza, batte le undici, l’incantesimo si spezza e la vita ricomincia a
fluire: le risate si fanno più frequenti, le parole si fanno più intense, le
figure si fanno più reali. I tavolini dell’unico bar aperto ricevono i primi
clienti chiassosi, le scalinate scenografiche accolgono i primi camminatori
stanchi: un nuovo giorno, a dispetto dell’ora tarda, è appena cominciato.
E.M., Santa Monica