martedì 29 ottobre 2013

Notizie da Lilliput 136: Così parlò la pietra

Di tutte le case e le costruzioni, di tutte le ville e i palazzi di Santa Monica, il complesso residenziale al 1001 di Washington Avenue è uno dei più suggestivi, certamente uno dei più evocativi.

La sua posizione invidiabile, a due isolati dall’oceano e all’incrocio esatto con la Terza Strada — che poco più in là diventerà Promenade, area di lussi e di svaghi commerciali — sembra sottolinearne fin da subito l’unicità.

Accentuata puntualmente dal servizio di parcheggio, generalmente rappresentato da uno o due giovani, facce sorridenti sempre pronte al saluto, che si prodigano giorno dopo giorno, automobile dopo automobile, a rendere quanto più confortevole possibile l’arrivo o la partenza dei diversi ospiti.

L’elegante inferriata scura, eretta a risoluta e altera protezione dalla strada e dai suoi molteplici pericoli, si affaccia su un giardino dagli accenti piacevolmente rinascimentali: una fontana centrale, apparentemente sottratta a uno dei tanti castelli europei del XV secolo, e dei vialetti geometrici ne costituiscono il vanto principale.

È la struttura, tuttavia, a concentrare su di sé il fascino e la bellezza più inebrianti: mura severe, di un’uniforme tonalità grigia, e impreziosite da finestre e finestrelle delle fogge più varie, come cesellate nella pietra e nel metallo, si concedono allo sguardo ammirato del passante, che, talvolta, sente perciò il bisogno di sostare per qualche minuto a contemplarne il muto spettacolo.

Qui più che in qualsiasi altro posto in città, si avvertono nell’aria le vite vissute nel corso del tempo; qui molto più che in qualsiasi altro posto in città, si respirano i ricordi di chi è stato e non è più.

Forse l’aspetto severo dell’edificio, così simile a quello di un monastero di clausura, del quale riporta fedelmente i tratti più caratteristici e significativi — fatti di tensione verso l’alto e di aspirazioni buone e giuste — conferisce a quest’angolo di Santa Monica un’atmosfera particolare, preziosa nella sua essenzialità.

Lo sa bene il viaggiatore che, passandovi di fianco frettolosamente, a caccia di abituali attrazioni turistiche da immortalare e di cui in seguito parlare, al pari di un mitologico navigatore, si riscuote improvvisamente dal proprio torpore, rispondendo al richiamo irresistibile di quelle aperture e di quei portoni, di quei comignoli e di quei balconi.


E che, sconvolto nell’animo dalla malia che sul luogo grava, che qui lo incatena con un misto di gioia e struggimento, non può fare altro se non cedere alla suggestione e, chiudendo gli occhi, rassegnarsi a accogliere le storie della pietra e dei suoi fantasmi.

E.M., Santa Monica

domenica 27 ottobre 2013

Notizie da Lilliput 135: Folletti in un mare di nebbia

Quando la Regina delle Fate si annoia, tutta la città di Santa Monica lo viene presto a sapere: le nuvole si addensano, l’aria si ingrossa, e nessuno ha idea di cosa possa accadere.

Generalmente, tuttavia, la bizzosa sovrana si limita a soffiare sull’acqua dell’oceano e a creare in tal modo la nebbia vaporosa che di questa parte di California dovrebbe essere simbolo.

Allora e solo allora, in quell’indistinta uniformità di uomini e cose, di case e animali, che di una simile operazione è l’esito abituale, il popolo dei folletti e delle altre creature magiche ha l’occasione di visitare indisturbato il mondo di quaggiù, intrufolandosi ovunque possibile a spiarne da vicino la vita, tanto affascinante quanto misteriosa.

Desiderosi di conoscere il più possibile, questi esseri bizzarri assumono nuove sembianze, diverse forme: hanno studiato a lungo, prima di avventurarsi al di fuori del proprio regno, e sanno quanto l’apparenza, più della sostanza, conti, altrove.

Curiosi e attenti, si disperdono per le strade ovattate, trattenendo a stento gridolini di gioia e lampi di eccitazione: smaniano per sedersi al tavolo di una caffetteria congestionata o per addentrarsi nel tempio del benessere e del consumismo, avendo memorizzato velocemente il mezzo più sicuro per mischiarsi nella folla.

Nonostante il tempo limitato a propria disposizione — ché un editto regale facilmente si revoca, a seconda del guizzo del momento — si comportano come se davanti a loro ci fosse, al contrario, l’eternità intera.

Passeggiano atteggiandosi a locali, di quando in quando strizzando gli occhi per meglio mettere a fuoco un particolare da ricordare in futuro; si inchinano a scompigliare il pelo di cani di grossa e piccola taglia, che poi ripenseranno con nostalgia a quel tocco impalpabile e amico; imitano la maniera di camminare, di ridere, di parlare di chi sta loro accanto sull’autobus o al ristorante.

Protetti dallo strato morbido di aria grigia, gironzolano fino a pomeriggio inoltrato, divertendosi a soffiare nelle orecchie di un neonato o lasciandosi andare a corse faticose sul bagnasciuga intirizzito.


La regina, intanto, ripresasi dallo stato di insofferenza che la prolungata assenza del consorte le ha procurato, si accinge a richiamare i sudditi a sé. Il segnale convenuto, fin dall’inizio dei tempi, è il primo raggio di sole che riesca a penetrare il manto di bruma.

Il pulviscolo si fa giallo d’improvviso: la malia si è spezzata. I folletti e le fate riprendono la via del ritorno, punteggiandola di felicità e rammarico.

E.M., Santa Monica

sabato 26 ottobre 2013

Notizie da Lilliput 134: Il settimo giorno

Il luogo si va lentamente riempiendo: i partecipanti lo raggiungono a piedi o in macchina, accelerando o decelerando in base alla propria coscienza.

Lo spazio, tanto grande da sembrare uno stadio, accoglie paziente i visitatori, senza mettere loro alcuna fretta: sa perfettamente che la maggior parte arriverà, trafelata, all’ultimo minuto, forse perfino in ritardo. È sempre stato così e probabilmente così sarà per sempre.

Gli archi e le volte, imponenti eppure non soffocanti, osservano in silenzio lo sciamare incostante di grandi e piccoli, giovani e vecchi che, ognuno secondo quanto conviene all’età e all’esperienza personali, ammiccano, sorridono, sussurrano.

La videocamera, intanto, si prepara puntualmente a celebrare l’evento, incipriandosi l’obiettivo e scegliendo con cura quale campo mostrare; ché qui tutti tengono in modo particolare a esibire il proprio lato migliore.

Le numerose file di sedili da occupare, non più tardi di quindici minuti fa quasi del tutto spoglie, vibrano ora di aspettative e di emozioni, a volte affini, altre volte contrastanti: pudore e serenità, rimorso e prostrazione si rincorrono nell’aria, giocando a nascondersi dietro le colonne e sotto i candelabri, giocando a acchiapparsi oltre le panche e tra lo stupore degli astanti, che, distratti,  si sforzano nondimeno di riportare l’attenzione sull’evento prossimo venturo.

Molto forte e incredibilmente vicino battono le ore, a segnare che il tempo dell’attesa è concluso, che il momento tanto sospirato è giunto. I sensi si acuiscono, gli occhi si restringono, le narici si dilatano: uno scampanio leggero ha infatti decretato l’inizio formale dell’avvenimento, scoprendo al pubblico l’ingresso di un uomo anziano, accolto dalla platea al pari di una rock star.

L’ultimo arrivato ringrazia cordialmente e saluta di rimando. Consapevole del proprio ruolo, esaurisce velocemente i convenevoli, desideroso di indirizzare i tanti amici di fronte a lui al reale motivo della loro presenza lì.

Il suo discorso, accorato e semplice, lungo e tuttavia piacevole a sentirsi, a tratti perfino divertente, sembra cogliere nel segno, rabbonendo gli indocili, rassicurando i fragili. E rendendogli piuttosto faticoso ogni tentativo di ripresa.

Un interminabile applauso ha sottolineato infatti, col favore tributato ai grandi personaggi, i pensieri cristallini appena espressi. L’oratore, con fare paterno, aspetta che l’uditorio si ricomponga, e poi ricomincia a officiare.

Questi ultimi istanti volano via in un soffio.
I corpi si rilassano, le menti gorgogliano: il parroco della chiesa di Santa Monica, dedicata alla patrona cittadina, conclude, scioglie l’assemblea e manda a casa.


E.M., Santa Monica

giovedì 24 ottobre 2013

Notizie da Lilliput 133: L'inverno del loro scontento

Quando il vento inizia a cambiare, e il cielo a tingersi dei primi colori autunnali, le maniche lunghe — i cappotti, le camicie, i maglioni — di Santa Monica osano una prima sortita fuori casa, nella speranza di non essere additati come troppo singolari.

Intimiditi dal persistere dei loro acerrimi nemici — canotte, pantaloncini corti, infradito — questi coraggiosi esemplari della ciclicità dell’esistenza, legata all’alternarsi delle stagioni, sfidano la derisione e talvolta il buonsenso, apparendo e scomparendo agli angoli delle strade, nei bar, agli attraversamenti pedonali.

In simili occasioni, le lane vergini e i cashmere, le sete e le vigogne fingono indifferenza verso i propri simili, quasi non riconoscendosi o non nutrendo, nelle viscere, un senso profondo di stima e di riconoscenza gli uni verso gli altri.

A ben guardare, tuttavia, le paure e gli scrupoli celati in quei loro movimenti, più o meno impacciati, più o meno tronfi, sono solo fisime personali, prive di qualsiasi legame con la realtà: nessuna maglietta che riveli pance e nessuna giacchina che scopra schiene pare curarsi di loro, del diverso da sé.

Eppure, questi cardigan e questi completi, questi stivali e queste galosce non sanno darsi pace, al pensiero di sfidare costantemente l’opinione comune e così, nel silenzio e nel segreto dei propri armadi e dei propri cassetti, si concentrano per strappare la natura all’idillio perenne verso la città, intimandole un po’ di pioggia e qualche linea di freddo.

L’impresa, seppur comprensibile dal punto di vista dei frustrati indumenti invernali, si sa, è cosa ardua da vincere, quando il sole comanda imperioso sulla terra di California resistendo ai richiami espliciti degli agenti atmosferici, che, al contrario, gradirebbero una qualche, legittima, alternanza.

Alla lunga, nondimeno e com’è giusto che sia, anche l’astro bizzoso è costretto a cedere, parzialmente: le vetrine, con un inconfessato sospiro di sollievo, si tingono perciò di capi irsuti e di scarpe chiuse, di tonalità cupe e di tessuti pesanti, relegando in fondo al negozio il cotone e il lino, le stampe variopinte e i sandali sfacciati.

È il momento dell’alpaca e dei filati Merinos, che, infine, si godono qualche secondo di meritato trionfo e celebrità. Orgogliosi sfilano sui manichini, arresisi al loro calore eccessivo, vanitosi ammiccano alla strada e ai suoi passanti: sentono il tempo, meteorologico e astronomico, al proprio fianco, clemente e paterno.


Ma nell’aria è presente il germe dell’alta pressione; in un soffio si palesa il genio dell’estate: e basta un nonnulla, un grado in più sul barometro, per precipitare nuovamente colletti e palandrane, piumini e scarponi nella sconsolante quotidianità costiera, fatta di tepore e di cieli azzurri, di palme e di belle stagioni. 

E.M., Santa Monica