San Francisco
è una città sadica e al tempo stesso generosa. Sadica perché spesso costringe a
un esercizio fisico estenuante, su e giù per colline che sembrano montagne;
generosa perché, quando si pensa ormai d’essere sul punto di desistere, regala
un parco completo di mostra d’arte e una cattedrale con le campane a festa, un
tram pieno zeppo di suoni e la vista del Bay Bridge, inaspettato e inondato di sole.
Per questo motivo San Francisco, a volte, dà perfino
alla testa. La sua scoperta, infatti, inizia solitamente in maniera allettante,
tra negozi e caffetterie che richiamano più una città europea, elegante ma non
algida, che una metropoli americana.
Con le spalle all’Embarcadero, il molo dalle tante anime
— godereccia, turistica, culturale — che sembra aver viaggiato nottetempo da Lisbona per trasferirsi in questo
angolo di mondo, si imbocca Market Street, la strada chiassosa, fatta di traffico, di banche, di palazzi
neoclassici e di uffici ultramoderni, a caccia di dettagli, di scorci
indimenticabili.
Il naso per aria e gli occhi
spalancati per la meraviglia, si ha l’impressione di non aver mai lasciato il Vecchio Continente, di non essere mai
sbarcati nel Nuovo Mondo: tutto, qui,
ha un’aria familiare, un aspetto consueto.
A intervalli irregolari si
aprono ai lati della passeggiata sbocchi signorili, raffinati, nei quali imbattersi
in file pazienti di persone in attesa del tram, in negozi dai marchi
prestigiosi, in atri dai marmi immacolati e dalle luci soffuse.
A lungo silenziose e obbedienti,
le gambe, tuttavia, possono esprimere ora un parere diverso, costringendo a una
brusca virata verso l’alto, nel tentativo di sfuggire allo squallore che, da un
certo punto in poi, sembra impossessarsi inevitabilmente della strada sulla
quale hanno camminato finora: un’occhiata penetrante al predicatore folle che
arringa passanti distratti e via, su per il pendio, verso un’aria più frizzante
e pulita.
Mason Street
o Taylor Street vengono dunque
prontamente in soccorso, attirando pedoni e automobili con la promessa di
quartieri migliori o panorami mozzafiato; e mantenendola, almeno parzialmente.
Ciò che, infide, non
rivelano, è la fatica necessaria a percorrerle: accoglienti e incoraggianti, dopo
pochi passi mostrano, infatti, una natura più maligna, spingendo il malcapitato
bipede a uno sforzo notevole, in vista dell’obbiettivo finale, il
raggiungimento del cocuzzolo.
La mente, tratta in inganno
da una pendenza iniziale particolarmente dolce e quasi inesistente, è adesso
invischiata in furiosi battibecchi all’indirizzo della topografia locale:
oltrepassa, cieca e sorda, edifici vittoriani perfettamente conservati e
vivacizzati da tinte allegre, lampioni di foggia antica, pareti di mattoni
interamente ricoperte di piante verdi, senza apprezzarli, senza goderne.
Ma poi, d’improvviso,
ammutolisce: la pena è finita, la tempesta è passata. La cima, così lontana
pochi istanti prima, è finalmente conquistata e la città, grata per un simile
sacrificio, ripaga nell’unico modo possibile, con le proprie bellezze, cioè,
prima di inabissarsi in picchiata verso altri rioni e altre storie.
E.M., Santa Monica