(Ri)leggere Bay City Blues e passeggiare sul
lungomare di Santa Monica.
Per immergersi
nell’atmosfera sottile di quest’angolo di California,
sembra essere consigliabile munirsi di speciali lasciapassare capaci di
disperdere l’eventuale delusione di fronte a strade troppo larghe e
(ordinatamente) trafficate o a viali alberati vuoti di macchine e persone.
Questo, perlomeno, è ciò che pensavo in volo la mia prima volta verso la costa
occidentale degli Stati Uniti,
esibendo all’ignaro Virgilio un
falsissimo sorriso di circostanza e stramaledicendo la mia incuria nel non
stipare la valigia di libri e DVD di salvataggio.
Al contrario, si
inizia a tirare un sospiro di sollievo poco dopo aver superato la Loyola Marymount University nelle vicinanze
dell’aeroporto dove, tra corsie sconfinate, complessi residenziali da centinaia
di migliaia di dollari e qualche locale dai muri scrostati e dal menù
tristemente fisso, occhieggiano i palazzi variopinti e mai noiosi di Venice, una delle tre propaggini a mare
della metropoli losangelina.
Camminare da queste
parti è molto piacevole: shopping e spiaggia a parte, ci si può infilare tra i
canali e canaletti del cuore storico della comunità balneare, nelle cui case in
legno colorato sbirciare alla ricerca di qualche volto noto (come quello di uno
dei creatori di South Park), o di una
tregua dalla presenza invasiva dei moscerini, attratti dalle acque scure e
dalle luci brillanti delle tante lampade decorative appese un po’ ovunque, quasi
a celebrare un Natale perenne.
Facile, penserà
qualcuno, cedere al fascino di uno scorcio che ricorda tanto da vicino Venezia, Colmar o Friburgo,
equivocando un simile atteggiamento per quello dell’europeo in vacanza che
storce il naso di fronte alle scopiazzature a stelle e strisce ma che, al
contempo, segretamente gode nell’annotare tutte le citazioni che gli
restituiscono la sua irrinunciabile patente di superiorità culturale.
Forse è il caso di affrettarsi
ora verso le Palisades da cui
ammirare l’interminabile litorale di Santa Monica, ex cittadina sonnacchiosa
alla Raymond Chandler e adesso vivace
centro abitato da circa 90.000 persone tra cui, a intermittenza, ci sono
anch’io. Dimenticando le architetture inimitabili di Chicago o gli scorci irripetibili di New York, tanto per citare un paio di esempi, ci si può ritagliare
anche qui un quadrato di felicità.
Lungo le strade
ordinate e pulite si affacciano costruzioni di stili diversissimi tra loro
eppure capaci di armonizzarsi perfettamente gli uni con gli altri, popolate di
esseri viventi (a due o quattro zampe) ospitali e amichevoli, costantemente
impegnati nello svuotamento metodico delle proprie cantine e/o soffitte.
Girando da queste parti
è ormai impossibile ritrovare quei volti scavati nel bianco e nero di tanti
personaggi hard-boiled degli anni ’30 e ’40: i detective lacerati e acquattati
nell’ombra delle residenze dai muri bianco abbacinante e le dark ladies dalle
esistenze misteriose e effimere loro compagne hanno ceduto il posto agli
aspiranti cineasti, alle giovani famiglie, ai salutisti dell’ultima ora e,
naturalmente, agli immancabili bagnanti in infradito e boxer stazzonati 365
giorni all’anno.
Locali dedicati alla
cura del corpo e della mente si affastellano lungo i lati di Main Street e Montana Avenue, alternandosi a caffetterie e ristoranti dai gusti
rigorosamente “organic” (una delle tante ossessioni dell’America opulenta e
obesa), sconfessando le sensuali volute di fumo e gli antri male illuminati di
un classico noir d’annata.
Anche Los Angeles, del
resto, a parte il sempiterno Beverly Hills Hotel, ha rinnovato la propria immagine, disperdendo i chiaroscuri
cinematografici a vantaggio di colori più solari e chiassosi, lavorando
testardamente a un tentativo di amalgamazione tra le sue diverse anime, ancora
di là da venire.
A conti fatti, e
nonostante l’atteggiamento snobistico dell’appassionata d’arte e di cultura che
glorifica l’europeismo smaccato della costa orientale, dunque, mi sono
felicemente risolta per una pacifica convivenza col diverso, accantonando il
ricorso a passati di carta o celluloide e assaporando invece la novità di una
policromia sempre sorprendente e stratificata.
E.M.
