A Toronto c’è un quartiere, il quartiere
universitario, in cui le linee architettoniche, variegate ma abbastanza nitide,
delle costruzioni fino a quel momento incrociate, si fondono le une con le
altre, amalgamandosi in forme bizzarre che, se descritte, sembrano scaturire da
un libro di fantasia, piuttosto che da una puntuale osservazione del reale.
Camminando con il naso per aria e la bocca
spalancata per la meraviglia, si ha la nettissima impressione che gli archi a
sesto acuto e le guglie del gotico fiorito si siano fusi in un abbraccio
infinito con i tratti meno severi, al confronto quasi paciocconi, delle case
vittoriane, partorendo una serie pressoché illimitata di affascinanti ibridi.
Abitazioni basse, generalmente a due piani,
sfilano le une accanto alle altre in una lunga teoria di fianchi troppo larghi
sotto teste oblunghe o di capelli ricci fino a diventare crespi a incorniciare
occhi languidi da bovindo georgiano. Esattamente come per gli esemplari della
razza umana, anche nel loro caso è impossibile scovarne due identici.
In un’atmosfera simile stonano gli studenti
che, a gruppetti di due, tre o più, macchiettano i marciapiedi puliti e le aree
loro espressamente dedicate: la consueta abbondanza di forme e di colori che
accompagna i giovani, infatti, mal si accorda al tono generale, cui andrebbero
affiancati mocassini in vernice nera e tessuti scozzesi, anziché jeans grinzosi
e canotte trasparenti.
Chiudendo gli occhi, tuttavia, la sgradevole
frizione tra passato e presente si attenua fin quasi a scomparire, permettendo
all’osservatore di assaporare ancora un po’ le immagini impresseglisi sulle
palpebre e di riempire i vuoti lasciati dalle sagome contemporanee con qualche
tocco o altro paludamento più adeguato.
Seguendo la scia di incenso e crinoline verso
la parte meridionale della città, poi, oltrepassato il St. Lawrence Market in cui facilmente si potrebbero intuire le
figure di Molly Malone e
del suo carretto, si raggiungono il Distillery District e i suoi giganteschi palazzi di mattoni
rossi e edera verde.
Qui, dove un tempo le autorità religiose e i
puritani storcevano senza dubbio il naso sussurrandosi all’orecchio disgusto e
riprovazione per la produzione di whiskey e le attività a essa collegate, sorge
la più imponente eredità architettonica vittoriana di tutta l’America settentrionale.
Sul viale centrale, largo e ben
proporzionato, si affacciano vicoli-scrigno, pronti a rivelare inaspettate
architetture e scorci indimenticabili, mentre panifici stretti, lunghi e poco
illuminati, difficilmente affrontabili da gonne voluminose alla maniera
ottocentesca, si alternano a caffetterie, i cui ballatoi di legno scuro e
severo attenuano la giocosità simil-parigina dei ricchi lampadari e degli altri
complementi d’arredo.
Eppure, osservando meglio, il tempo
rigorosamente scandito dalla ripetitività delle mansioni ha ceduto oramai il
posto alla piacevole mollezza delle giornate dedicate allo shopping o
all’esplorazione della città, depositandosi sui cocuzzoli degli alti camini
industriali, a guardia dell’intero sito e del suo irrecuperabile passato.
E.M., Toronto
