sabato 29 settembre 2012

Notizie da Lilliput 23: Le mille e una città



Il fascino di Toronto è simile a quello di un oggetto caro che, a seguito di un incidente, si sia cercato di risistemare nel miglior modo possibile, supplendo alle eventuali mancanze (una scheggia perduta, un braccino inutilizzabile) con un poco di inventiva.

Ricorda anche la bellezza delle rovine su cui muschi, edera e licheni siano tornati a riappropriarsi di quanto loro sottratto in precedenza dalla mano dell’uomo. Benché, nel suo caso, le abitazioni ricoperte di fitta vegetazione, e all’apparenza abbandonate, rivelino, a uno sguardo più attento, l’incontrovertibile traccia di vita ancora vissuta al proprio interno (una tendina inamidata, delle scatole ordinatamente impilate a ridosso di una finestrella triste).

Quest’aria rabberciata, da benevolo Frankenstein, è diventata col tempo uno dei tratti più facilmente riconoscibili della città che, appunto perciò, eppure paradossalmente, subisce la sorte riservata alla persona dai tratti comuni, unica e insieme plurima: camminando per le sue strade, infatti, la sensazione prima e più forte è quella di attraversare quartieri già visti tante e tante volte in decine, centinaia e migliaia di posti diversi.

Non si creda, tuttavia, che la città sia dimentica del proprio aspetto: al contrario, lo cura con pazienza e attenzione, operando ristrutturazioni radicali solo se strettamente necessarie e prediligendo loro, invece, una puntuale affermazione delle rughe, delle crepe, dei segni della Storia.

Un po’ Europa, un po’ America, lo shtetl si trasforma in ammasso di casette da prateria, in file e file di dignitose costruzioni a schiera dalla fisionomia operaia, in palazzi parigini della prima metà del XIX secolo, in chiese fortificate alla moda dei castelli medievali e, più raramente, in grattacieli piuttosto bassi, al limite del nanismo.

Toronto, tuttavia, non ha solo fascino e bellezza: ha anche carattere; un carattere forte e a tratti mutevole come l’architettura che la contraddistingue.

Non ha la solarità degli abitanti della California, né l’affabilità di quelli di New York o di Chicago. Meglio, è capace di tutto ciò, ma preferisce esprimerlo a momenti, a seconda delle circostanze nelle quali si viene a trovare.

Accoglie il visitatore in modo composto e spiccio, senza troppe moine, e tuttavia impeccabilmente, lasciandogli da subito la piacevole sensazione d’essere trattato da pari a pari.

Non ostenta opulenza come spesso capita oltre confine. Sfoggia abiti, i più diversi e bizzarri si possa immaginare, che abbina secondo estro e disposizione d’animo; ai gioielli e agli orologi costosi oppone buffi occhiali da sole e magliettine quasi stazzonate, recuperate dal fondo del cassetto.

Se non avesse un’economia solida, si potrebbe quasi rispolverare l’antica espressione “povertà dignitosa”, applicabile, va da sé,  solo in maniera superficiale. Perché infatti, sotto questa apparente noncuranza e indifferenza, il dollaro canadese regna sovrano (e più forte ancora di quello statunitense).

E forse è appunto questa la grande lezione che si cela dietro ogni balconcino sbilenco e dietro ogni faccia orgogliosamente stravagante: la sicurezza delle proprie radici e delle proprie competenze, capaci di informare di sé, senza troppo scalpore, qualsiasi tratto di vivere quotidiano.  

E.M., Toronto