Entrare da Lucy, a Chippewa Falls, è un po’ come entrare in un telefilm degli anni
’60, sorrisi inclusi. Dietro il bancone, che attraversa verticalmente il lungo
locale, occhieggiano bontà d’ogni sorta e formato: pani e pagnotte, cetriolini
e formaggi, peperoncini e salse, verdure fresche e carne di cinghiale,
intingoli di disparata origine e, naturalmente, dolci artigianali. Il paradiso
del goloso o l’inferno dell’indeciso.
Ragazze e ragazzi
svelti, dal chiacchiericcio ammaliante di sirena, accolgono il cliente avvolgendolo
in una spirale conturbante di profumi, di colori e di parole allo scopo, nemmeno
troppo nascosto, di costringerlo a una discesa nel piacere puro e semplice.
La giovane
perennemente a dieta o l’uomo invariabilmente stritolato dal colesterolo alto vivranno momenti difficili, a ridosso del vetro ricoperto di scritte
allegre dai suoni invitanti che separa il futuro penitente dall’incanto
gastronomico rigorosamente fatto in casa. La sola speranza, per loro, è quella
di rinunciare a varcare la soglia tintinnante che, come nel peggiore degli
incubi, risveglia i dipendenti, magari a riposo con una tazza di caffè fumante
in mano, inviandoglieli contro, quasi una sorta di leggendaria nemesi.
Qualche stoico, forse
a caccia di conferme alla propria durezza d’intenti, tuttavia, siede di quando
in quando ai tavoli di legno chiaro, separati gli uni dagli altri per mezzo di
sedili alti e comodi, imbottiti di stoffe in tinta col resto degli arredi. Ma,
a uno sguardo più attento, non sembra gioire particolarmente. Un'occhiata
sfuggente, obliqua, oltre la tazza di brodo di manzo privo di orpelli la lancia
pure, alla volta delle delicatezze proibite, liberando perfino, del tutto
involontariamente, un suono indistinto, a metà tra il rammarico e il lamento: è
il rimpianto, rimpianto per la decisione presa nei confronti del cibo che, ora,
gli si rivolta contro.
Poco più in là, due
donne confabulano ininterrottamente, scambiandosi bocconi appetitosi e pettegolezzi
succulenti, incuranti della sofferenza del vicino e delle notizie che aspettano d’essere lette sul quotidiano locale, soffocato dai
cappotti e dalle sciarpe adagiategli sopra con cura certosina.
Il brusio dei
dipendenti, sottofondo costante del locale, spesso accompagnato da una rassegna
di canzoni rétro, in tono con
l’ambiente, tace d’improvviso nell’ampia sala adiacente, in cui, come talvolta accade nei piccoli centri, la ristorazione si fonde con il suppellettile,
l’ornamento floreale e l’abito da cerimonia.
Il turista e il
curioso godono qui di un momento di prolungato benessere. Sugli espositori
dalle sfumature pastello, infatti, riposano articoli d’ogni sorta: maglie e
felpe, bottiglie di vino e di liquore, barattoli di marmellate e di conserve,
biglietti beneauguranti e carta da lettere, candele e olii profumati,
angioletti in legno e in vetro.
Semideserto nel
primissimo pomeriggio, quando le strade si svuotano del solito formicolio di
esseri umani e di animali, questo grande spazio, nonostante il bizzarro
accostamento di elementi disparati, riporta in avanti l’orologio fermatosi bruscamente
con lo scampanellio d’ingresso: è giunto il momento, per la memoria, di
riaprire i propri cassetti, facendoci scivolare dentro tutti i sogni e tutti i
ricordi, reali o immaginati, custodendoli gelosamente fino alla prossima
fermata, fino al prossimo paese incantato.
E.M., Long Lake
E.M., Long Lake