È facile girare per
le strade di Los Angeles immaginando di vivere in un altro tempo, in un altro
luogo. Magari in un mondo dalle scenografie di cartapesta, nel quale case e
negozi si susseguano a velocità variabile, legati al ritmo di una panoramica o
di una carrellata cinematografica, a seconda del punto di vista.
In un mondo simile, i
passanti sono comparse, i passeggeri dei vari veicoli sono probabili
controfigure, mentre i protagonisti sono momentaneamente assenti, forse andati
a farsi ritoccare il trucco, forse andati a concedersi una pausa solitaria
lontano dalle grida della troupe o dagli sguardi dei curiosi, assiepati a
ridosso delle transenne.
In un mondo simile,
contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, si arriva per caso, ignorando
le indicazioni stradali relative ai grandi centri di produzione e guidando,
invece, giù per i tornanti di Mulholland Drive fino a incrociare i palazzi, le
piazze, le fontane del quartiere di Encino, nella San Fernando Valley.
Qui, dopo una rapida
sosta all’interno di una caffetteria nascosta tra i graniti e i giardini di un
centro commerciale dal sapore esotico, si può scegliere, infatti, di proseguire
lungo Ventura Boulevard, una delle principali direttrici est-ovest della zona.
Lo scenario, percorse
appena poche miglia, non tarderà a trasformarsi: gli alti edifici di Sherman Oaks, infatti, saranno presto sostituiti da costruzioni basse, in legno e
muratura, a tratti scrostate, come si conviene a quinte teatrali inneggianti al
realismo.
L’impressione, persistente, è quella d’essere sul set di un film.
La tentazione, forte,
è quella di scendere dall’abitacolo per andare a toccare porte e finestre,
soglie e insegne, in cerca della pecca, del particolare che ne riveli l’inautenticità.
La speranza,
cocciuta, è quella di scoprire il vuoto, il cielo azzurro e le nuvole bianche dietro
a ogni singola facciata.
Studio City, del
resto, già dal nome rivela qualcosa di sé, come se, fin da subito, volesse
mettere in guardia il visitatore, suggerendogli, nemmeno troppo velatamente, la
completa inconsistenza della propria natura, effimera e evanescente come una qualsiasi
forma di spettacolo o di intrattenimento.
Eppure, una volta
raggiunta, non la si vorrebbe lasciare più. Di sicuro, non prima d’aver
curiosato dentro i ristoranti, italiani o messicani, dentro gli studi, medici o
veterinari, dentro i negozi, d’abiti o di scarpe. Mentre stucchi e colonne,
timpani e mattoni, dal canto loro, citano placidamente epoche vittoriane e località
europee. Ovunque si respirano fascino e decadenza, ovunque si sfiorano
malinconia e disincanto.
Studio City, una volta raggiunta,
non la si vorrebbe lasciare più.
E.M., Santa Monica