Non sono affatto
sicura che con gli anni si diventi più cauti o più saggi. Riguardando indietro
i principali avvenimenti della mia vita, infatti, mi sorprendono ancora certe
trovate prudenti ideate dalla me adolescente di un tempo a fini esclusivamente
cautelativi. Trovate che, se dovessi ricorrervi oggi, sarei costretta a annotare
su qualche post it da appiccicarmi in fronte, nel futile tentativo di non
dimenticarle.
Una di queste,
peraltro rivelatasi successivamente superflua, connota uno degli incontri più
inaspettati e forse irripetibili accadutimi fino a oggi.
Di nuovo Jacksonville, di nuovo prima esperienza
americana, di nuovo l’amica di allora. La vacanza è ormai agli sgoccioli; il
mese si è pressoché concluso, con un imprevisto colpo di scena: la compagnia
aerea che dovrebbe riaccompagnarci a Miami
(risparmiandoci così un lunghissimo viaggio in corriera), infatti, ha appena
perso uno dei suoi velivoli in un raccapricciante incidente, esaurendo d’un colpo
le mie sacche di coraggio. Con mossa fulminea ottengo dunque il rimborso del
biglietto già acquistato e trascino la mia più che riluttante compagna di
ventura in una discesa infernale verso il centro cittadino, triste, afro e
fatiscente, alla volta del non luogo americano per eccellenza: il capolinea
degli autobus Greyhound.
Continuo a ripetermi
e a ripeterle che grande avventura sarà, ritrovarsi tutte sole per un giorno intero
lungo le autostrade assolate di fine settembre, punteggiate di palme altissime
e nuvole bianche. Non ho ancora visto Accadde una notte, ma nel misto di paure e avventatezza che caratterizza sempre i miei
preparativi per una qualsiasi partenza, sento che tutto andrà bene. Meglio,
sono costretta a sentirlo, dato che
devo farmi perdonare la cancellazione del ben più comodo — e rapido —
spostamento aereo.
All’interno del mezzo
è tutto esattamente come descritto da decine e centinaia di film e serie TV:
sedili foderati di blu, rigidi abbastanza da sorreggerti la schiena, ma non
troppo da causare piaghe e bubboni, facce sorridenti o annoiate o scure o
sofferenti, eccitazione strisciante e aspettative soffocate, gomme da masticare
scoppiettanti ovunque. Non saremo così fortunate da incrociare Joe Buck, probabilmente, ma l’aria
porta con sé la dose di elettricità necessaria a spingere verso di noi una
coppia di suoi vaghi emulatori.
Al rientro dalla
prima sosta in uno dei tanti diner —
autentiche oasi-salvezza per migliaia di automobilisti e viaggiatori in genere
— infatti, due uomini, benché il più giovane, Steve, non sembri essere molto più adulto di noi, iniziano una
conversazione nella quale ci troviamo presto coinvolte, più per educazione che trasporto
o curiosità. Perché qualcosa nelle loro risatine e nelle loro mezze frasi non rassicura,
al punto da portarmi a mentire e a dissimulare la realtà in un istintivo
rigurgito di autoconservazione. È così che, da diciottenne sciolta da legami
sentimentali, mi ritrovo felicemente — e da lungo tempo — fidanzata. Come se un
malintenzionato possa esimersi dall’assalire una qualsivoglia vittima nel caso
questa riveli una relazione stabile nella propria vita…
Eppure, quell’insieme
di bugie innocenti (e la consapevolezza che niente di male potrà accaderci
fintanto che saremo al riparo nella pancia del grosso automezzo) basta a
tranquillizzarmi, permettendomi di non cedere allo sconforto davanti alla
caparbietà con cui i nostri interlocutori macinano parole, battute e
incomprensibili sottintesi. Però mentirei, se dicessi di non aver provato un
certo sollievo nel salutarli, a metà tragitto, salutando così la “grande
avventura” fino allora vagheggiata che solo a casa, qualche tempo dopo, avremmo
riconosciuto come tale.
Al rientro in Italia, infatti, ormai al riparo dai
ghigni di Steve, ma soprattutto da quelli del suo compare, decido di mantenere la
parola data al primo dei due, inviandogli una breve lettera nella quale,
accanto a informazioni entusiaste sui miei primi giorni all’università, mi
rivelo sbadatamente per quello che sono, priva, cioè, di dolce metà. Con sua grande sorpresa.
Una sorpresa ancora
più grande, però, accoglierà la sottoscritta a brevissimo giro di posta, alla
vista della sua prima risposta proveniente direttamente da un penitenziario della Pennsylvania: Steve, per sua stessa
ammissione, ha voluto annusare un po’ di mondo, saltando sul primo Greyhound,
levriero, disponibile — perfetta metafora del suo bisogno di evadere, stavolta in
senso letterale, i confini dello stato, violando la propria libertà vigilata —
e scorrazzando su e giù per la Florida
in cerca di qualche storia con cui distrarsi nei mesi a venire.
Nonostante la sua
inusuale condizione, comunque, bastano poche righe a tratteggiare un ragazzo
piacevole e sensibile, che non mi dispiace aggiornare di tanto in tanto, e dal
quale non mi dispiace essere aggiornata. E che, quando il nostro rapporto si
interromperà misteriosamente all’indomani del suo agognato rilascio,
risucchiando con sé un vago alone di proibito e incerto, sarà forse utile a indicare
come le avventure non ci siano necessariamente precluse a causa di qualche
precauzione in più.
E.M.
E.M.