Lungo una delle sue rive, seminascosta da betulle canute e spoglie e alberi sempreverdi, c’è Holy Island. Non più di una trentina di abitazioni, in prevalenza case e casette di legno, compongono il suo panorama architettonico in una girandola di insegne antiche e imposte intagliate.
Tra quelle, una in particolare, marrone e verde, attira l’attenzione del passante per l’evidente cura accordatale dagli attuali proprietari.
Durante una delle loro frequenti assenze si può sperare in un colpo di fortuna e, incrociando le dita, sorprendere l’ingresso secondario aperto per una sbirciatina furtiva.
L’interno, inaspettatamente spazioso, si rivela ancora più invitante dell’esterno, accogliendo il visitatore indiscreto con un gradevole aroma di cannella proveniente dalla candela della cucina rustica.
Sul bancone della prima colazione, a fissare con occhio clinico il ripiano lucente, forse sono ancora visibili le tracce lasciate da due, tre, perfino sei persone qualche ora prima intorno a tazze di caffè, piatti colmi di uova e pancetta, di formaggi e di pane abbrustolito, mentre accanto al frigorifero riposa, del tutto inavvertito, un succulento tacchino, prossima cena di famiglia.
Ogni dettaglio è studiato attentamente, nel riuscito tentativo di concedere tregua alle noie quotidiane. Ogni nicchia nasconde un segreto, un piccolo tesoro, una memoria. Il rivestimento delle pareti e l’arredo, interamente di legno, riscaldano e inebriano col profumo avvolgente di pino, mentre le decorazioni e i colori, alci e orsi in un armonioso gioco di sabbia, ocra e terra, riportano alla mente leggende antiche e favole immortali.
È scendendo nel sottopiano, tuttavia, che un lieve cambiamento di atmosfera rende i sensi più attenti e i ricordi d’ora in avanti più vividi.
Il passaggio improvviso dalle tonalità neutre al rosso intenso e al verde scuro della moquette a grossi quadri, delle lenzuola e degli asciugamani, infatti, unito alla sfumatura chiara delle pareti, richiama, più che un’innocua fiaba per bambini, le atmosfere cupe care a David Lynch: una per tutte, quella degli interni claustrofobici e onirici presenti in Twin Peaks.
A ogni mossa sembra di essere guidati da un narratore onnisciente perfido e sghignazzante, mentre a ogni angolo sembra di scorgere occhietti maligni e giallastri, pronti a gettare sul malcapitato un qualche incantesimo malsano.
Le fronde degli alberi e i versi ancestrali degli animali al di là delle ampie vetrate, punteggiatesi velocemente dello scuro della sera calata all’improvviso, poi, amplificano la sensazione di disagio misto a piacere provata finora, inducendo a una rapida ritirata su un tappeto di foglie gialle e arancioni verso un boccale di birra calorosamente servito dall’oste locale, in un guazzabuglio di soprammobili inutili e bizzarri avventori.
E.M., Long Lake
E.M., Long Lake