Ellis Island è uno
scrigno inesauribile di fantasmi e di storie. Anche solo sfiorarla col battello
diretto verso la sorella più spensierata e chiacchierata, Liberty Island,
infatti, può scatenare ricordi di vite mai vissute e di sogni mai sognati. Questa
poeticità, espressione del distacco emotivo e temporale maturato dal momento
della sua chiusura in poi, tuttavia, difficilmente sarà stata percepita da
quanti, a caccia di quattro soldi di speranza, si siano imbattuti in lei in un
passato non troppo remoto. Le file interminabili per i controlli medici, la
paura di non essere accettati, la necessità di garantire una autosufficienza
economica iniziale avranno certo rappresentato una soglia difficile da
oltrepassarsi.
Allo stesso modo,
ipotizzando un futuro senza più 11 di settembre e ricco invece di pace e
prosperità per tutti, forse tra qualche centinaio d’anni si guarderà alla
dogana odierna e al suo imperscrutabile protocollo con affetto, quando non con
partecipata commiserazione. E sorseggiando chissà quale bevanda alla moda,
seduti davanti a chissà quale cosmo mozzafiato, se ne studieranno le antiquate
usanze, magari visionando qualche bizzarro filmato d’epoca. Dal quale emergerà
con evidenza come, in fondo, le severe precauzioni imposte agli aspiranti
statunitensi a metà tra il XIX e il XX secolo non fossero poi
tanto distanti dalle procedure in vigore oggi, sul finire del dodicesimo anno del terzo
millennio, nonostante le loro infinite declinazioni.
Atterrare in uno
qualsiasi degli sterminati aeroporti a stelle e strisce, procedere
pecorescamente spediti verso i gabbiotti appaiati, straripanti di sentimenti
mutevoli nei confronti dello Straniero e di innumerevoli marchingegni e
stratagemmi per monitorarne le attività passate, presenti e future, infatti, può
diventare un’esperienza estremamente diversa di stagione in stagione, di città
in città, di agente in agente.
New York, per
esempio, non avrà tempo da perdere in oziose domande e ricerche minute: con uno
sbadiglio e un gesto eloquente della mano concederà l’ingresso a quanti lo
chiederanno per un giorno, una settimana, un mese. Stanca del proprio ritmo
frenetico, non si lascerà intimidire dall’inflessibile etichetta, evitando
perfino di ricorrere al controllo della cornea e delle impronte digitali. If I
can make it there, I’ll make it anywhere, canticchierà tra sé e sé soddisfatto il
viaggiatore, individuando ben presto la propria valigia sul nastro
trasportatore e pregustando l’idea di un prossimo volo,
magari verso il Midwest dove, tuttavia, non gli verrà necessariamente
riservato un uguale trattamento.
Perché Chicago, appunto,
fedele alla propria immagine di città perennemente divisa tra giustizia e
crimine, le cui specifiche morali e comportamentali troppo spesso si
confondono, probabilmente lo accoglierà con espressione accigliata e sospettosa,
sulle tracce di un’eventuale falla, di una possibile pecca. Sotto la cruda luce
di una lampada immaginaria ma efficace, lo sottoporrà a un durissimo terzo
grado, sfiancandolo fino alla nausea con poche domande ripetute all’infinito,
accelerando in tal modo il processo di rimozione degli antichi fasti
newyorchesi.
Solo una nuova
tratta, una nuova avventura saprà riportare il sorriso sul volto provato del
malcapitato turista che, a tal fine, si sarà coraggiosamente deciso per un
prosieguo verso ovest, alla volta della California. Qua, complici il clima
piacevole e la simpatica rilassatezza degli abitanti, avrà modo di
riconciliarsi con le autorità doganali che, chiacchierando spensieratamente
con lui, sbirceranno rapidamente sul suo passaporto, prima di augurargli un
indimenticabile soggiorno tra agrumi, sole e mare.
E.M.
E.M.