Ricorda anche la bellezza delle rovine su cui
muschi, edera e licheni siano tornati a riappropriarsi di quanto loro sottratto
in precedenza dalla mano dell’uomo. Benché, nel suo caso, le abitazioni
ricoperte di fitta vegetazione, e all’apparenza abbandonate, rivelino, a uno
sguardo più attento, l’incontrovertibile traccia di vita ancora vissuta al
proprio interno (una tendina inamidata, delle scatole ordinatamente impilate a
ridosso di una finestrella triste).
Quest’aria rabberciata, da benevolo Frankenstein,
è diventata col tempo uno dei tratti più facilmente riconoscibili della città
che, appunto perciò, eppure paradossalmente, subisce la sorte riservata
alla persona dai tratti comuni, unica e insieme plurima: camminando per
le sue strade, infatti, la sensazione prima e più forte è quella di
attraversare quartieri già visti tante e tante volte in decine, centinaia e
migliaia di posti diversi.
Non si creda, tuttavia, che la città sia
dimentica del proprio aspetto: al contrario, lo cura con pazienza e attenzione,
operando ristrutturazioni radicali solo se strettamente necessarie e
prediligendo loro, invece, una puntuale affermazione delle rughe, delle crepe,
dei segni della Storia.
Un po’ Europa, un po’ America, lo shtetl si trasforma in ammasso di casette da
prateria, in file e file di dignitose costruzioni a schiera dalla fisionomia
operaia, in palazzi parigini della prima metà del XIX secolo, in chiese
fortificate alla moda dei castelli medievali e, più raramente, in grattacieli piuttosto
bassi, al limite del nanismo.
Toronto, tuttavia, non ha solo fascino e
bellezza: ha anche carattere; un carattere forte e a tratti mutevole come
l’architettura che la contraddistingue.
Non ha la solarità degli abitanti della
California, né l’affabilità di quelli di New York o di Chicago. Meglio, è
capace di tutto ciò, ma preferisce esprimerlo a momenti, a seconda delle
circostanze nelle quali si viene a trovare.
Accoglie il visitatore in modo composto e
spiccio, senza troppe moine, e tuttavia impeccabilmente, lasciandogli da subito la
piacevole sensazione d’essere trattato da pari a pari.
Non ostenta opulenza come spesso capita oltre
confine. Sfoggia abiti, i più diversi e bizzarri si possa immaginare, che
abbina secondo estro e disposizione d’animo; ai gioielli e agli orologi costosi
oppone buffi occhiali da sole e magliettine quasi stazzonate, recuperate dal
fondo del cassetto.
Se non avesse un’economia solida, si potrebbe
quasi rispolverare l’antica espressione “povertà dignitosa”, applicabile, va da
sé, solo in maniera superficiale.
Perché infatti, sotto questa apparente noncuranza e indifferenza, il dollaro
canadese regna sovrano (e più forte ancora di quello statunitense).
E forse è appunto questa la grande lezione
che si cela dietro ogni balconcino sbilenco e dietro ogni faccia
orgogliosamente stravagante: la sicurezza delle proprie radici e delle proprie
competenze, capaci di informare di sé, senza troppo scalpore, qualsiasi tratto
di vivere quotidiano.
E.M., Toronto










